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Roba da matti

camicia-di-forzaA volte capita che i pensieri nascano fuori di te e ti seguano fino a bussare insistentemente alla tua sensibilità. E poi arriva il momento in cui li accogli, li mescoli, li fai amare e riesci a donare la vita ad ulteriori pensieri.

Dopo aver ampiamente (anche troppo) parlato delle alterazioni del Sè nel post precedente, mi ritrovo per caso a vedere il film di Giulio Manfredonia Si può fare e di seguire, sempre per caso, su Unomattina (e io non lo guardo mai!) un’intervista allo psichiatra Luigi Attanasio, sostenitore di quella psichiatria democratica che rese possibile 30 anni fa la Legge Basaglia, e infine lo scrittore Ugo Riccarelli, che, sempre per caso, ho conosciuto pochi giorni fa, il quale presentava il suo ultimo libro Comallamore, che narra le vicende del piccolo Beniamino che da bambino osserva i matti e che diventa uomo grazie alle loro storie.

Purtroppo poco spazio è stato lasciato alle parole di Riccarelli, che con il suo approccio delicato e poetico, tentava di esprimere il proprio pensiero sulla relatività dell’idea di follia. E proprio nel momento in cui tentava di dare una spiegazione a quella bella immagine di bambino che ascolta il rumore del mare in copertina, l’incompetente Eleonora Daniele lo interrompe per deviare la conversazione sulla necessità di tutelare la società da questi pericolosi criminali che non hanno alcun diritto di essere ascoltati e supportati.
Il pretesto dell’intervista è stato il caso di cronaca che vide l’aggressione di una coppia di anziani alla stazione di  Palermo per mano di uno psicolabile.
Non voglio dilungarmi vomitando giudizi su tale episodio, nè tantomeno ho le competenze per proporre soluzioni per la società sulla gestione del disagio mentale. Ma una cosa mi ha colpito nelle parole del dott. Attanasio ed è il punto di partenza di quelle nuove teorie psichiatriche che imposero la chiusura dei manicomi  (Legge 180), ossia la convinzione, di spostare il fulcro dell’analisi dalla malattia organica (intesa come problema da annienatre escludendo il malato dal contesto sociale)  al paziente e all’origine sociale del disturbo. In altre parole ho voluto leggerlo in linea con il principale assioma dell’antipsichiatria che vede nella psichiatria uno strumento di controllo sociale che ha la sua massima realizzazione nei manicomi e nella neutralizzazione dei pazienti attraverso cure farmacologiche a dosi elevatissime e terapie opinabili quali l’elettroshock.
Purtroppo la realtà attuale racconta di famiglie lasciate sole e di istituzioni che non hanno i mezzi sufficienti per dare un supporto a questo disagio. E chissà quali altri interessi economici e politici impediscono la realizzazionedi una rete di servizi esterni che possano assistere le persone affette da disturbi mentali che vivono in una società sempre più individualista, indigente in cui la lotta per la sopravvivenza può diventare una strada in discesa verso la follia.

Diceva Basaglia: la conquista della libertà del malato deve coincidere con la conquista della libertà dell’intera comunità…In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione…una società per dirsi civile dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla.

Sono passati più di 30 anni da queste parole e molte cose sono cambiate e tante altre cambieranno.

Ciò che più colpisce la mia sensibilità è l’universalità di cui si nutrono queste parole. Oggi non è “di moda” parlare di matti e il diverso è l’immigrato e chi è portatore di una cultura differente. Il diverso fatica a integrarsi a causa di un fraintendimento di base per cui ciascuno fatica ad aprirsi all’altro nascondendosi dietro le prorpie certezze culturali.

Finchè non ci si porrà in una condizione di rispetto e umiltà reciproca si impedirà ai differenti idiomi di confluire nell’unico linguaggio possibile che appartiene agli esseri umani tutti e i cui fondamenti risuonano nelle parole di accoglienza, ascolto, compassione e reciprocità.

Giuseppe Cederna, Ramachandran e i frammenti del Sé

giuseppecedernaGiuseppe Cederna è un attore che ho scoperto anni fa nella pellicola di Andrea Barzini Italia Germania 4 a 3 e ho continuato a stimarlo nel film premio Oscar Mediterraneo.
Giuseppe Cederna è un attore e anche scrittore e ultimamente ricorre spesso nei miei pensieri, così, improvvisamente e senza ragione alcuna e ciò accade in momenti apparentemente incongruenti tra di loro. Il suo reading alla Fiera del Libro non poteva che essere un incontro predestinato, e mi basta sentire questo per non pormi ulteriori domande a riguardo. Scelgo, in altre parole, di accettare incondizionatamente questo dono.
Il reading dal titolo La donna che morì dal ridere, ovvero i misteri del  Sé, si annunciava come un viaggio alla scoperta del legame che unisce la scienza all’arte e come tale non poteva non suscitarmi un forte coinvolgimento, ulteriormente amplificato dalla presenza del grande attore che da troppo tempo ormai appare in piccoli frammenti della mia vita.
Una volta seduta nella Sala Azzurra del Lingotto ho scoperto che quel titolo altro non è che uno dei capolavori del medico neurologo V.S. Ramachandran che riporta alcuni bizzarri casi clinici di pazienti che riferivano assurde e immaginarie sintomatologie in merito a reali patologie. Come per esempio un atleta che ha perso il braccio ma che continua a percepirlo dolorante, o ancora il giovane Arthur che, in seguito a un fatale incidente stradale, si convince che i genitori siano stati sostituiti da replicanti, e ancora il caso del vignettista, divenuto cieco progressivamente e vittima di allucinazioni surrogate della realtà. Questi e altri celebri casi diventano il punto di partenza della dell’indagine di Ramachandran su quei meccanismi del cervello umano che determinano comportamenti irrazionali, stati d’animo incongruenti e percezioni alterate. Secondo Ramachandran questi studi possono colmare l’abisso che c’è tra la cultura scientifica e quella umanistica, tra l’immagine che abbiamo di noi stessi e quella che gli altri hanno di noi. Questo gap è determinato dai diversi ruoli giocati dagli emisferi cerebrali, per cui in quello sinistro risiede un sistema di credenze che determinano una sorta di equilibrio del Sé, ma nel momento in cui l’emisfero destro rivela delle anomalie (le patologie), può succedere che il sinistro prenda il sopravvento ignorando il problema o stravolgendo totalmente la realtà delle cose esterne. Ed ecco che si verificano tutti quei meccanismi di difesa che vanno dalla rimozione alla negazione, fino alle forme estreme di autoinganno (anosognosia). Pertanto la consapevolezza del sé e della propria identità vengono totalmente alterate e l’immagine che si ha di sé non corrisponde a quella che si mostra all’esterno.

Ora, che cosa centra tutto ciò con il rapporto tra scienza e arte?
L’arte altro non è che una ricerca dell’unità del sé frammentato nella realtà esterna. Da questo viaggio in cui si tenta di raccogliere le briciole sparse dell’Io, nascono mirabili poesie, pitture, romanzi e tutte le grandi forme d’arte possibili. L’arte è il misterioso racconto dell’Io attraverso la narrazione, i colori e le forme.

Ecco perché i grandi artisti, mediante la loro capacità profonda di essere in contatto con se stessi, hanno intuito alcuni dei più grandi meccanismi cerebrali. Di questo parla il giovane ricercatore Jonah Lehrer che ha celebrato il sodalizio tra arte e scienza nel suo illustre saggio Proust era un neuro scienziato. In esso riprende le parole di Proust che descrive il sapore e l’odore di una  madeleine e i ricordi d’infanzia che tali sensi lasciano affiorare alla memoria. Questo racconto è un’anticipazione della scoperta del legame tra connessioni cerebrali e percezioni sensoriali, nello specifico tra i sensi (gusto e olfatto) e l’ippocampo, sede della memoria a lungo termine.

Pertanto, tutto ciò che afferisce al Sé è frammentato nell’esteriorità delle esperienze, per cui la nostra verità parte dal caos esterno, dai frammenti di sensazioni, esperienze e ricordi e si ricompone al’interno della nostra coscienza dando forma al Sé.
Virginia Woolf, scrittrice dalla vita tormenta, si dedicò totalmente alla narrazione attraverso l’abbandono al flusso di coscienza, segnale questo dei tempi in cui visse, che videro sostituirsi alle certezze del positivismo, la relatività di alcune scoperte in ambito medico e scientifico (Einstein, Freud…) che rivelarono la presenza di un mondo interiore all’essere umano che in qualche modo era strettamente legato a quello esteriore. Ed è proprio osservando le infinite trasformazioni della realtà, accompagnate dal continuo fluire del tempo, che si può intervenire fissando il momento, quel momento, in quel luogo, che rivela i frammenti di un Sé in cerca di identità. E, ponendo la giusta attenzione, si può rintracciare la continuità tra i singoli momenti nello scorrere caotico degli eventi, fino a raggiungere finalmente la coerenza del Sé che definisce l’identità della persona.

L’Io è la nostra opera d’arte di cui solo noi stessi siamo responsabili. Se non ci fosse l’Io saremmo solo una massa di personaggi in cerca di autore.

Suggerisco a me stessa e a chi ha avuto la pazienza di arrivare fino alla fine di questo lungo post, le seguenti letture: L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello di Oliver Sacks, La donna che morì dal ridere di V.S.Ramachandran e Proust era un neuroscienziato di Jonah Lehrer.

Ringrazio con affetto Giuseppe Cederna, (con il quale ho sentito l’incontenibile esigenza di cercare un contatto fisico attraverso un’emozionante stretta di mano), per aver fermato in quel momento e in quel luogo un grande frammento di me e di avergli dato forma e colori attraverso le sue parole ricche di incanto, suggestione e verità.

Mediabazooko: un’esperienza ai confini della bruttezza cinematografica

il-boscoPensavate di aver oltrepassato le frontiere del trash restando incollati davanti alle risse dell’isola dei famosi e alle sgallinate nel pollaio di Uomini e Donne?
Poveri a voi! Roma vi offre molto ma molto di più. Venite anche voi alle strampalate e spassose serate organizzate da Mediabazooko e Filmbrutti . Ad accogliervi una massa di presunti cinefili e pure cinofili personaggi dalla romanità carnale e verace. Sto parlando di cultura, ragazzi, quella vera, quella che supera gli snobbismi intellettualoidi di certo cinema pessimista, masochista e angosciante. Qui i buoni vincono sempre e il male viene sconfitto dopo una battaglia ricca di suspense, colpi di scena e proto-effetti speciali che segnano col sangue il confine tra la paura e la letizia. Ma questa linea è talmente sottile che, una volta oltrepassata, esplode in incontenibili risate di pancia.
Mediabazooko è uno spazio culturale di simpatici fanciulli animati dall’insana passione per il cinema che, una volta a settimana, organizzano cinevisioni insieme al gruppo di Filmbrutti, il cui nome parla da sé.  Ogni visione è accompagnata da liberi insulti e dal lancio di oggetti non contundenti contro lo schermo illuminato dalle più oscure creature del male, eroi invincibili, zombie, cannibali, povere vergini, vampiri e Chuck Norris.
La serata di ieri è stata dedicata al re della zoomata  Jess Franco e al suo capolavoro Una vergine tra i morti viventi, la storia di una giovane verginella, con l’abitudine di sguazzare ignuda tra le acque lacustri, che va a trovare alcuni parenti in uno spettrale castello sperduto tra i boschi. La trama è stata difficile da seguire a causa dei continui e accalorati insulti nei confronti di questa pellicola dai contorni sfocati, le lunghe e inutili carrellate, gli interminabili piani sequenza e le continue e ossessive zommate sugli sguardi assenti dei protagonisti. Mi astengo dal fornirne una dettagliata recensione, perchè alla fine del primo tempo siamo stati piacevolmente sorpresi dal cambio di programma. Buio in sala ed ecco animarsi sullo schermo una coppia felice di innamorati che, durante il loro viaggio tra delle presunte Alpi, incontrano un’intimorita donzella in versione Solange anni ’80, dietro le cui innocenti spoglie, si cela una spaventosa creatura del male, armata di un braccio mostruoso che, nel teaser del film, dà prova della sua cattiveria sfracellando gli attributi di un povero giovine caduto nella sua trappola seduttiva. Il capolavoro in questione è Il Bosco 1 di Andrea Marfori.
Sorseggiando birra, ci si ritrova, si chiacchiera, si dà uno sguardo alla collezione di vinili, libri, opere maestre del cinema mondiale e introvabili capolavori del cinema trash degli ultimi 30 anni.
Dopo tali visioni i vostri sogni non saranno più gli stessi e dopo tre visioni riceverete in omaggio il privilegio di fare la comparsa nel prossimo esilarante film di Ruggero Deodato Cannibal Holocaust 2, il cui primo successo battezzò la carriera d’attore dell’On. Luca Barbareschi!!! Accorrete numerosi, accorrete numerosi. Mediabazooko, via F. Selmi 125, Roma.

Ma prima di salutarvi vorrei citare due massime (gentilmente offerte dai ragazzi di welovechucknorris) del Sommo Eroe, da cui tutte noi dementi donzelle vorremmo essere rapite.

Chuck Norris spesso chiede alle persone di tirargli il dito. Quando lo fanno, li colpisce con un calcio volante nell’addome. Dopodiché scoreggia.

I bambini hanno paura del buio. Il buio ha paura di Chuck Norris

L’agrodolce caponata di Davide Enia

davide-enia1Mancano poche settimane ormai alla mia partenza per la Sicilia e la cosa mi turba non poco. Pertanto, l’unico modo che ho per abbandonarmi all’idea, è legarmi alla bellezza che questa terra ha nelle sue viscere e che spesso riesce a esplodere in forme d’arte altissima. In queste immagini il grande cantastorie Davide Enia incarna la sfrenata ed estrosa preparazione dell’agrodolce caponata.

One Day intensive tour a Torino

torino-magicaLa mia esperienza torinese si è conclusa tra mille lacrime… la concentrazione di pollini in città è altissima e forse è questo l’unico motivo per cui non vedevo l’ora di ritornare a Roma. Ma non prima di aver visitato tutto il visitabile possibile nel poco tempo rimastomi. Rianimata da un’ overdose di antistaminici  e armata di una consistente quantità di fazzolettini di carta, ho inaugurato il mio tour tra i mille volti di Torino.

Ad accogliermi per prima piazza Solferino, sede della nuova porta della città dove campeggiano i due “gianduiotti” realizzati da Giugiaro in occasione dei Giochi Olimpici del 2006. I due padiglioni sono da anni oggetto di polemiche relative alla loro rimozione che, a mio modesto parere, sarebbe opportuna dato che queste due enormi strutture sono lasciate abbandonate e appesantiscono l’armonia della piazza, oscurando la bellezza della Fontana Angelica delle Quattro Stagioni. Dalla piazza, lungo Via Pietro Micca (via obliqua rispetto alle altre strade squadrate del centro storico) mi ritrovo catapultata nel passato quando raggiungo la suggestiva Contrada dei Guardinfanti, una delle zone più vetuste della città, ornata da stradine strette e sinuose su cui fanno orgogliosa mostra di sé antiche e moderne botteghe, laboratori artigianali e negozi di alimentari ricchi di prodotti tipici piemontesi. La vita sembra scorrere lentamente e l’alternarsi di architetture medievali, rinascimentali e barocche restituiscono una fascinosa atmosfera indefinita avulsa dal ritmo veloce del traffico, che scorre isterico a poche centinaia di metri più in là. La contrada prende il nome dalle voluminose intelaiature a forma di campana, che gonfiavano la vanità delle gonne delle dame di un tempo.
Oltrepassata la Via dei Mercanti, il ritorno al presente è sancito dalla shoppingosa e pedonale Via Garibaldi che incrocia Via Della Consolata, al termine della quale si apre la piazza che ospita il Santuario della Consolata, dedicato alla Madonna Consolatrice, come reca l’iscrizione latina sul portale. Non è dato sapere il motivo per cui abbia assunto tale nome, quasi a voler essere lei stessa consolata. Mah, uno dei tanti misteri della Fede…Meglio “abbassarci” a tematiche più terrene per segnalare il dirimpettaio storico locale Al Bicerin, dove nacque il memorabile caffè al cioccolato e crema di latte.
Pochi passi più in là ed eccomi al centro dell’area cittadina in cui si concentra la “tendenza”, il Quadrilatero Romano, cuore della night life ricco di locali, caffè, enoteche, wine bar, ristoranti e dehors (parola ricorrente qui in città per definire i locali all’aperto). Ma il ricordo più intenso è legato al ristorante Le 3 Galline, di antica tradizione piemontese dove ho assaporato raffinati, ma consistenti antipasti e una saporitissima anatra all’arancia innaffiata da vino di ottima qualità: una gustosa e prelibata esperienza dei sensi…
Mi basta attraversare la strada e immettermi nel centro di Piazza Repubblica per ritrovarmi nella parte vitale della multiculturalità torinese. Il mio sguardo vaga smarrito tra i colori delle bancarelle ricche di frutta e tessuti di ogni parte del mondo, l’olfatto rapito dai profumi delle prelibatezze orientali, l’udito confuso dagli idiomi magrebini e levantini. E un senso di timore per le sorti del mio portafogli. Sì, il diverso mi attira, ma mi intimorisce ancora: malinconica constatazione che cerco di superare addentrandomi fino al più profondo ingorgo tra le diverse umanità in cui spicca il timido e bianco colore della mia pelle. Superato il disagio, osservo, tocco, annuso ciò che mi circonda e lo lascio dietro di me per raggiungere la porta nord, Porta Palatina e il suo circostante Parco Archeologico. Nella piazza antistante (piazza S. Giovanni) si erge la  rinascimentale Cattedrale di San Giovanni Battista.
Il sole picchia forte e la fame comincia a punzecchiare lo stomaco. La cairbodrato-fobia da troppi pranzi a base di panini e piadine viene immediatamente cancellata dal ricordo di un luogo dall’aspetto biologico e naturale in cui mi attendono nuovi orizzonti culinari pseudosalutisti. A passo svelto ritrovo il ristorante Exki dove mi seduce una briosa e leggera insalata di cous cous, una fetta di torta salata al formaggio e una macedonia di ananas a rinfrescare le assetate papille gustative. Pranzo leggero, sano e nutriente. Dopo due ore c’ho di nuovo una fame, ma ometterò di proposito il momento dedicato alla succulente e calorica pausa gelato.

Quindi… dopo pranzo mi ritrovo nel centro del centro di piazza Castello dove sorge Palazzo Madama, ma la mia attenzione è rivolta alla cancellata bronzea del Palazzo Reale la cui entrata è sorvegliata dalle statue di Castore e Pollluce. Non per amore dell’arte, né per la mia conclamata passione per i miti greci (dagli antichi aedi alla mitica Pollon) bensì perché si narra che quella sia la  linea di confine tra la Torino magica e la Torino diabolica nonché il luogo in cui si concentra l’energia positiva di tutta la città. Una volta trovato il punto esatto di equidistanza tra i due Dioscuri spalanco le braccia ad accogliere tutta la positività possibile. Una lunga inspirazione, uno sguardo alla barocca chiesa senza facciata di S. Lorenzo e poi via lungo i portici che ospitano gli ingressi della Biblioteca e dell’Armeria Reale fino al Teatro Regio. Sono ormai le 2 passate e non so se proseguire verso nuovi orizzonte o ridare uno sguardo a ciò che già avevo avuto modo di visitare. Mi riferisco a Piazza Carignano e al suo Palazzo che fu testimone della nascita dell’Unità di Italia, piazza S. Carlo, altrimenti detta il salotto bene di Torino, che accoglie le chiese gemelle di San Carlo e Santa Cristina, nonché il riconoscibilissimo monumento equestre a Emanuele Filiberto e infine la commerciale via Roma. Ma considerato che non ho alcuna intenzione di fare shopping, nè tanto meno quella di confondermi nella marmaglia delirante di ragazzini che sbraitano e sbavano sotto all’ingombrante palco di Amici (sì, quelli della De Filippi) che oscura le bellezze della piazza, non ho scelta, seguo la via Po che mi guida fino a una delle piazze più ampie del mondo, Piazza Vittorio Veneto. Di fronte a me il verde Po, superato il quale mi ritrovo di fronte alla chiesa della Gran Madre di Dio che, secondo un’antica leggenda, pare abbia accolto nei suoi sotterranei il Sacro Graal. La grande forza esoterica è con me e mi spinge con coraggio a inerpicarmi pedibus calcantibus lungo la ripida (va be’, non tantissimo, ma il sole picchia) salita al Monte dei Cappuccini, famoso punto panoramico su cui si erge la chiesa di Santa Maria del Monte. Stremata dalla fatica mi accascio su una panchina sotto la frescura ed è qui che medito la malsana convinzione di meritarmi un gelato a gratifica di cotanta impresa. Ma del mio peccato di gola non racconterò.

Una buona mezzoretta è quanto mi ci vuole per riprendermi e affrontare la discesa verso il Lungopo. Durante la passeggiata decido che se un giorno o in una prossima vita abiterò a Torino, prenderò casa proprio qui tra le rigogliose e verdeggianti colline torinesi, non troppo lontane dal centro cittadino.

La mia passeggiata sta per volgere al termine (sono le 4 del pomeriggio e sto camminando dalle 10 e mezzo del mattino!!!), la fermata dell’autobus che mi porterà al Lingotto è ancora molto molto lontana e mi toccherà attraversare i viali alberati del Parco del Valentino, per raggiungerla. Curato, pulito e pullulante di nonni, bambini, bikers e innamorati,  il parco ridà vigore alle mie stanche membra e il contatto diretto con la natura rigogliosa appaga ogni desiderio tranne uno, ma non vi racconterò di quel gelato divorato sulla panchina di fronte al fiume. Il fiabesco Castello del Valentino, mi viene interdetto da un folto gruppo di stanchi e accaldati poliziotti, a causa del G8 dell’Università.
Manca ormai solo un’ultima tappa al mio one-day intensive city tour, l’antico Borgo Medioevale, un immaginario villaggio che riproduce gli edifici piemontesi del XV secolo. Il destino vuole che ne visiti la Rocca gratuitamente, e gliene sono grata non provando emozione alcuna in questo posticcio salto nel medioevo.
Appagante è invece la vista della sontuosa Fontana dei Dodici Mesi in stile liberty, ultimo assaggio d’arte della mia visita nella superba, elegante, ma decisamente vivace e accogliente capitale piemontese.

Torino mi ha mostrato orgogliosa i suoi mille volti e la ringrazio per questo, ma sappia che non finisce qui. Non dimentico che essa sorge nel punto in cui convergono il vertice del triangolo di magia bianca e del triangolo di magia nera. Ritornerò a scandagliarne l’anima oscura, fino ad immergermi candidamente nella sua misteriosa e inquietante atmosfera esoterica.

Sushi Vs Orecchiette

sushiL’entusiasmo per una serata in compagnia è spesso un buon propulsore contro il pregiudizio.
E così ieri sera, complice il desiderio di guidare e sfoggiare la NuovaKa, ho accettato l’invito di Laura e Luca e mi sono immersa nel mondo della gastronomia nipponica. Appuntamento alle 22 al Bishoku Kobo in zona Ostiense.
Le mie precedenti esperienze da profana in compagnia di profano, non erano state entusiasmanti e avevano decretato una definitiva incomptibilità tra i sapori del sol levante e le mie papille gustative pugliesi.
Ma la flessibilità è la più grande virtù, diceva Tarkovskij (e fatemela fa’ na citazione colta ogni tanto) e così mi sono inchinata davanti a sushi, sashimi, ramen, onigiri e tempura. Ho mangiato tutto e ho provato un certo godimento nell’assaporare queste esotiche prelibatezze,  ma la soddisfazione maggiore l’ho avuta nel sorbirli in maniera rumorosa e sgocciolosa, cerimoniale particolarmente amato dalla cultura giapponese, atta a manifestare il gradimento della pietanza. La passionalità del galateo nipponico batte 10 a zero la stitichezza del bon ton italiano: ma vi pare sensato lasciare parte di cibo nell’angolo del piatto per dimostrarne l’apprezzamento? E’ un’inaccettabile contraddizione! Anche se, diciamo la verità, non mi sono mai piegata a questa regola infausta e ho sempre dato soddisfazione a chi mi ha invitato, concedendomi spesso una doppia porzione!
Vorrei assegnare un giudizio a questo ristorante, ma la mia incompetenza in materia mi spinge ad astenermi, perciò mi limito a esprimere la mia gioia per aver trascorso un’altra bella serata in compagnia dei miei amci della setta dei blogger, a ringraziare Luca e Laura per avermi preso per mano lungo questa iniziazione e a dichiarare a piena voce che il sushi è molto meglio di quanto immaginassi, ma le orecchiette al sugo col cacioricotta di mia madre rimarranno per tutta la vita sul podio dei miei sogni mangerecci. Oggi è la festa della mamma e non potevo non concludere con questa appassionata dichiarazione d’amore.

New York: diario di viaggio (quinta e ultima parte)

walk-dont-walk Non ci sono più i vecchi semafori di una volta!
Quelli che hanno accompagnato la mia adolescenza nei film americani degli anni ’80, quelli che indicavano lo stop con un rosso ammonitore  DON’T WALK e ti invitavano ad attraversare con il verde WALK! Sono stati sostituiti da una mano rossa minacciosa e un bianco omino che accenna a un passo.

E’ un truma che ho già subito a Berlino Est quando decisero di sostiuire i vecchi Ampelmännchen con i semafori standardizzati di tutta Europa.

Ma questa triste considerazione non può fermare gli ultimi momenti di vita neyorkese. La caviglia destra ha ceduto sotto lo sforzo delle  lunghe camminate quotidiane, una crema all’arnica allevia le sofferenze, ma il desiderio di visitare ancora la città è incombente. Zoppicando percorriamo il ponte di Brooklyn, la cui parte pedonale è sopraelevata rispetto alle corsie delle auto che sfrecciano creando un effetto dondolìo poco rassicurante. Si vedono i grattacieli di Manhattan e, piccola piccola, in mezzo alla baia, si scorge la Statua della Libertà.
Lentamente raggiungiamo il traghetto che ci porta a Ellis Island, residenza ora del Museo dell’Immigrazione, ma un tempo “porta della speranza” che accoglieva gli emigranti del vecchio continente. E ripenso agli alberi di monete, le galline giganti e i fiumi di latte che vivevano nei sogni dei nostri connazionali e che Crialese riuscì a dipingere nel suo capolavoro cinematografico.  Ma il museo è una specie di enorme sanatorio diviso in un grande atrio al piano terra e, ai piani superiori, le diverse stanze  adibite ai controlli sanitari e doganali. Rimane freddo e asettico e non riesce a colmare le mie aspettative emotive.

Ormai la giornata sta per finire, ci rimane il tempo solo per l’acquisto di qualche pensierino, ma a Manhattan, a parte gli atelier inaccessibili ($$$) di SoHo, ci sono gli stessi negozi di Roma e trovare qualcosa di tipico americano è davvero difficile. Entriamo da Macy’s, i grandi magazzini più estesi del mondo, ma ne usciamo quasi subito. Non ci rimane che spulciare tra le americanate dei New York Gift Shops, dove non mancano le T shirti-love-ny
E’ ora di cena, l’ultima cena newyorkese. Vogliamo accomiatarci con riverenza dalla città che ci accolto e ci lasciamo fagocitare dal ristorante americano più turistico della città, l’Ellen Stardust Diner, nel cuore di Broadway. Gli anni ’50 sono pacchianamente ricostruiti attraverso foto di Dean Martin, Frank Sinatra, Marilyn e Betty Page, vinili appesi al muro e un piccolo trenino che viaggia su piccole rotaie che circondano il locale. I camerieri agghindati alla Grease ci accolgono con sorrisi a 32 denti e danzando ci accompagnano al tavolo. Sono affabili e gentili sorridono e si lasciano andare a battute forse anche divertenti, se solo riuscissimo a coglierle. Il volume della musica è alto, ma non fastidioso. In una mano sorreggono grossi piatti ricolmi di hamburger, patatine fritte, onion rings e tutte le grasse delizie della cucina americana, nell’altra stringono con ardore un microfono e danno sfoggio delle loro notevoli doti canore. Spaziano dal pop al country, ma danno il meglio di sè nei classici del musical. C’è persino chi sfida Pavarotti intonando un improbabile, ma divertente Nessundorma. Volteggiano tra i tavoli e improvvisano tip tap sulle spalliere dei lunghi  divani. Non riescono a smettere di sorridere e sorridere e seducono i clienti con la vecchia storia del sogno americano che vive proprio lì fuori a due passi da loro: Broadway e i grandi teatri del musical. Ma le lezioni di canto e ballo, ahimè, hanno un costo elevato… Signori turisti, il nostro futuro dipende dai vostri portafogli! Gli occhioni languidi sono un ulteriore incentivo alla nostra generosità che ricolma un grosso cesto di special tips (mance speciali) che si aggira attorno ai tavoli.
Mi faccio contagiare dall’entusiasmo del turista ingenuo e appassionato, ormai sono parte attiva di questo felice quadretto preconfezionato: non riesco a contenere l’impeto di scattare un’infinità di foto inutili e mi scateno insieme a loro, canto, ondeggio e batto le mani a tempo. Sublimo così la stanchezza di questi straordinari giorni newyorkesi.

E’ il momento di rientrare in patria. Il languore mi assale, quante cose non ho vissuto di New York, dai musical di Broadway al Guggenheim Museum, dai gospel di Harlem ai concerti del Blue Note, dalle partite dell’ NBA alle vanitosissime Nail Spa.
Ma quello che più mi è mancato sono stati i newyorkesi, entrare nelle loro vite, correre con loro, e soprattutto vivere la città come una di loro.

New York: diario di viaggio (parte quarta)

tehching-hsiesIl Metropolitan sarà pure uno dei musei più grandi del mondo, ma mi fa rimpiangere le tanto odiate freccette direzionali sul pavimento dell’Ikea. Mi perdo nei corridoi tentacolari tra virili bellezze ellenistiche, corpulente armature medievali, vetusti sarcofagi egizi e suppellettili frantumate. Riprendo fiato coi capolavori dell’Impressionismo, i ritratti di Modigliani e poi le ballerine di Degas, la borghesia francese di Toulouse Lautrec, Van Gogh, Gauguin, Renoir…
In un angolo del 2° piano una giovane artista stende una coperta per terra a riparare il pavimento dagli schizzi dei colori ad olio che cadono dalla sua tela, poggiata sul cavalletto, che riproduce in parte il “Soap Bubbles” di Chardin. Accende il suo I-pod con lo sguardo fisso sul quadro, l’originale, inserisce le cuffie nelle orecchie e la musica la avvolge e la protegge come fosse in una bolla di sapone. Intinge il pennello e riprende da dove aveva lasciato. E io decido che ormai la mia visita è conclusa.

E’ il MoMA il mio museo! Incomincio il mio viaggio nell’arte moderna e contemporanea mondiale e non mi stanco neanche un po’, incuriosita e stupita dalle installazioni e dalle sperimentazioni che mi fanno venir voglia di assemblare materiali, colori e idee. Non sono un artista nel senso quotato del termine, ma posso divertirmi anche io! E così prendo appunti su progetti e decorazioni.
Mi faccio attrarre dai colori che mi inducono al sorriso e trovo piacevoli conferme nei quadri di Chagall primo su tutti, Dalì, Magritte, scopro tanti autori nuovi. E mi ricordo che non mi piace Pollock.
Mi rendo conto che c’è dell’arte che non capirò mai o, forse, non me ne accorgo ma la capisco, dato che mi rimane impressa. Parlo di Tehching Hsieh e le sue one year performance, come, per esempio, essere rinchiuso per una anno all’interno di una cella nel suo loft di SoHo, fotografato costantemente, senza poter nè parlare, nè leggere, nè scrivere, nè tv, nè radio, nè avere alcun contatto con alcuno se non un amico che provvedeva al suo nutrimento. O come rimanere legato con una fune a  una donna senza nè toccarla, nè rivolgerle la parola per un anno e altre simili situazioni estreme…
Che ciò sia arte? Mah, le definirei più che altro sfide “creative” che l’uomo attua contro se stesso per soddisfare esaltazione del prorpio ego e masochismo in un colpo solo. Ma questa è solo un’opinione.

Il vento soffia freddo e forte in questi ultimi giorni nella Grande Mela e io e Marco ci lasciamo tentare da un’altra tendenza che accomuna tutti i newyorkesi,  la ear band, ossia un banale paraorecchi, tanto sottovalutato all’inizio, ma che invece dà una svolta concreta alla nostra capacità di sopportazione al freddo. E così, mano nella mano, guanto nel guanto, ci inoltriamo nella City.
Con le orecchie al calduccio mi accorgo che i rumori della città  sono attutiti, è una sensazione piacevole, continuo a osservare la gente che cammina spedita e improvvisamente realizzo il perchè, perchè i neyorkesi vivono in simbiosi con l’ I-pod! Il frastuono, i clacson, le sirene, i motori, i cantieri… Per giorni ho comunicato urlando perchè a New York la voce della gente è sopraffatta dal rumore!!!

Scendendo verso Downtown, lungo la Broadway, i grattacieli lasciano il passo a palzzoni ingrigiti dallo smog. Negozi di borse cinesi si alternano a botteghe zeppe di Obama’s stuff, merchandising improbabile che celebra il culto del 44° Presidente degli Stati Uniti: magliette, calzini, mutande, orologi, tazze, borse, pupazzi, profumi e prevervativi di Obama, ma only big size!!!
Una frotta di afroamericani, solo afroamericani, cammina lungo la strada, chi parla al telfono in giacca e cravatta, chi si saluta seguendo una certa ritualità, chi cerca di venderti  qualcosa, chi sempilcemente si fa i fatti suoi. Il quartiere è decisamente multiculturale e ci faccio caso perchè non sono abituata, perchè sono italiana.

Qualche isolato dopo comincia NoHo, dove la fa da padrone l’ interior design.
A Chinatown insegne, strisconi e lanterne decorano le vie. Il rosso e il giallo oro illuminano il quartiere movimentato da ristoranti, negozietti di elettronica e di abbigliamento. C’è anche un poco attraente tempio buddista ricavato in un locale al pian terreno di una palazzina.  Gli ideogrammi vivono anche sulle insegne delle banche e degli uffici pubblici, i cinesi parlano cinese tra di loro.

A Little Italy gli italiani si aggrappano alla tradizione della nostra cucina e affiggono le foto autografate di Toni Soprano alle vetrine. Colorano gli stand pipes (colonnine con fontana che si vedono per strada) di bianco rosso e verde  e espongono qua e là il tricolore. Little Italy è molto più piccola di Chinatown e gli italiani parlano americano tra di loro.

New York: diario di viaggio (parte terza)

mikejulietA New York si mangia ad ogni angolo della strada, ma anche tra un angolo e l’altro. E dato che io di strada ne ho battuta parecchia… in senso turistico!!!
Pertanto, dall’alto della mia esperienza dichiaro che the Oscar goes to Chiplote Mexican Grill, sponsor ufficiale dei miei chili di troppo degli ultimi 7 giorni. Come esimermi dal decantare le doti libidinose dei burritos stracolmi di carne very very spicy o le enchilladas succulente al queso innaffiate da bevande rigorosamente refill, ossia paghi la prima e poi ti riempi il bicchiere quanto ti pare e tutte le volte che ti pare! Per non parlare di un’altra usanza tipica americna All you can eat cioè entri, paghi una prima consumazione e poi mangi all’infinito, fino a che il tuo stomaco non ti chiede pietà. Poi, appesantita e spossata, osservi la gente per strada e ti si rivela un mondo, quello dell’ over size, pericolo incombente in una società  sempre di fretta che ha una diretta accessibilità a quantità infinita di cibo “saporito” e bevande gassate.  Pensi che in una settimana di vacanza te lo puoi permettere anche tu, in fondo è solo una settimana…, dal contenuto calorico di un mese, però!!! Ma bando alle lacrime di coccodrillo, le prelibatezza culinarie etniche e indigene mi hanno ormai sopraffatto rendendomi incapace di intendere e volere!
E sto ancora godendo del sapore del poc’anzi ingurgitato pancake mattutino, quando vengo abbordata da una entusiasta signora bionda dall’aria sbarazzina da venditrice che mi propone un’offerta alla quale non posso rinunciare, la partecipazione al mitico The Morning Show with Mike& Juliet! Wow! Faccio io, adottando i primi rudimenti di slang americano, senza sapere assolutamente chi siano sti due. E in men che non si dica, mi ritrovo catapultata negli studi della Fox a intonare coretti alla multi level marketing style, sapientemente guidati/imboccati dall’assistente di studio/animatore che, dopo averci fatto dimenare a ritmo di hip hop, così, tanto per riscaldarci un po’,  ci inizia alla sacra arte del pubblico partecipativo. E adesso, tutti insieme, stuporeee!!! E un rotondo ooohhhhh 8| stupito riecheggia nello studio. Bravi, siete un pubblico meraviglioso, e ora disapprovazione!!! E’ il momento del corrucciato uuuuuhhhhh  :S , ma  l’eccitazione dei partecipanti sale fino ad esplodere in una risata contagiosa |D , perchè nei talk show c’è sempre il momento comico!
Istruita e fiera, commento mugugnando per un’ora il bla bla bla sul linguaggio del corpo del dio Obama, sui metodi rivoluzionari di un microchip che si impianta dietro l’orecchio e manda segnali al cervello che inducono il senso di sazietà, e sulle domande del pubblico interattivo allo specialista di turno. Un’inutile, ma molto americana, ora della mia vita!
Si è fatto tardi e il Metropolitan Art Museum è lontano (dalla 47th all’80th) ma ci voglio andare a piedi, serve a smorzare il mio senso di colpa calorico.

Dopo un iniziale imbarazzo alla biglietteria in cui mi si dice che l’offerta è libera, leggo sul cartello che la suggested admission è di 20 $, penso che faccio? la figura della pezzente italiana o impassibile accetto il suggerimento? La mano si avvicina al potafoglio, non ho ancora deciso, sono attimi infiniti scanditi da un montaggio alternato tra il mio PP incerto e lo sguardo serioso e altezzoso del bigliettaio che non distoglie i suoi occhi dai miei neanche per un attimo. La gente dietro, in attesa, scalpita per entrare, la mia mano è dentro al portafolglio, ‘sti dollari sono tutti uguali e non so porprio quale afferrare, tiro fuori la prima banconota, riconosco George Washington, è un dollaro, la mano trema mentre allungo la banconota sul bancone ed è in quel momento che scatta l’orgoglio italico e con strafottenza ne tiro fuori un altro, l’ultimo.  Ne devo dare ancora 20 al MoMA è lì non è suggested, ma obbligatorio!

New York: diario di viaggio (parte seconda)

La mie 3 giornate solitarie, tutte le mattine, hanno visto la prima luce  del FLAVOUR, healty bar ricco di prelibatezze culinarie degne di una real american breakfast, ma dal sapore chic e raffinato. Far away da grasse e unte omlette con bacon e cetrioli in salamoia, sono divenata oat meal addicted, una calda poltiglia zupposa di fiocchi d’avena arricchita di uvetta, cannella, mela e banana.  Ma a New York c’è da camminare e necessito di sostanziose riserve energetiche . Quale soluzione migliore di un soffice e burroso muffin al cioccolato… Ogni morso, un sorriso gaudente!

Zaino in spalla, guida alla mano e macchina fotografica in tasca, Paola è pronta ad attraversare a piedi tutta Manhattan!

Lungo la 7th Avenue la gente cammina a passo svelto, ma i miei occhi le percepiscono al rallenty, mentre indaffarati frugano nelle proprie borse, smanettano l’Ipod, parlano all’ Iphone, sorseggiano caffè, ma soprattutto passano col rosso, anche davanti a compiacenti poliziotti che sorvegliano ogni angolo della metropoli. In pochi fumano per strada, è vietato persino in prossimità dei portoni e delle entrate di negozi, uffici e locali di ogni tipo. Ma di fumo se ne vede tanto, è quello che sfiatano i tombini, ma è semplicemente un diverso sistema di riscaldamento che usa il vapore come fluido termico. Ecco spiegato tutto quel fumo in Taxi Driver!

Al Madison Square Garden sta per cominciare una delle più importanti mostre canine di tutta l’America  la Westminster Kennel Club Dog Show che decreterà la vittoria di Stump, un dolcissimo Spaniel di 10 anni (il più vecchio in 33 anni di gare) docile presenzialista di tutte le trasmissioni tv e telegiornali americani.
Lascio i vari padroni inebetiti dall’estetica canina e mi avvio lungo il Fashion District attravesrsando la variegata umanità newyorkese: nasi e menti arrotondati o a punta, visi ovali e allungati o tondi e floridi, grassi, molto obesi, ma anche fanciulle dagli evidenti disturbi alimentari, giacca e cravatta, jeans e maglietta, casual e sportivi, le ragazze indossano le UGG, il trend del momento in fatto di calzature, gli sguardi sono tutti rivolti a un pensiero, il mio pensiero è rivolto ai loro sguardi. Ma nessuno si accorge di me, neanche quando mi fermo tra un grattacielo e l’altro a cercare un fascio di sole a riscaldarmi mentre scrivo scomodamente in piedi i miei appunti di viaggio. Fa freddo all’ombra qui a  New York!

Le strade sono pulite,  sono le 11 e ho voglia di un caffè, italiano, ma è un sogno che non potrò realizzare per i prossimi giorni. I grattacieli mi hanno lentamente abbandonato lungo il cammino e  mi ritovo a Chelsea. Il sole è libero di ammantare le strade, it’s sunglasses time!

Tento di riappacificarmi con Starbucks dopo un preliminare incontro/scontro con un frappucino al caramello, fredda poltiglia dolciastra al sapore di caffè, dall’altissimo contenuto calorico. Mi converto a un tè, alla mela, tanto per testare qualcosa di diverso. Ma anche qui il magico tocco americano dell’esagerazione mi  si presenta in una bevanda dolcissima e piccante . L’ho bevuto lo stesso, seduta al mio tavolino, mentre mi studio il prossimo itinerario. Alzo gli occhi e la profezia newyorkese dello Starbucks si avvera: sono circondata da studenti ipnotizzati da facebook col Mac sulle gambe mentre tambuurellano con le dita la musica imprigionata nell’Ipod.
Il  Greenwich Village è giovane, dinamico, gayo, alternativo e verde, in altre parole very very friendly. E’  qui che voglio vivere quando rinascerò a New York, è qui che voglio mangiare nei locali alla mano, ma ricercati nel gusto e nell’estetica  pacata, misurata, ma sofisticata e d’impatto. La Christopher Street è colorata dalle bandiere arcobaleno e dalla moda degna dei Village People, i negozi sgargianti di Bleecker Street, le librerie e i caffè hanno il sapore di movimenti letterari e studenteschi. Il cuore del Village è il Washington Square, parco verde e curatissimo che accoglie bambini, studenti, skater, giocatori di scacchi e chiunque abbia volgia di rilassarsi su una delle tante panchine disseminate qua e là. Ma è il Washington Arch ad imporsi, arco di trionfo del 1889 che segna l’inizio della 5th Avenue.

Mi lascio alle spalle la New York University e mi basta attraversare la strada per notare il repentino cambiamento del paesaggio urbano: assumo un’aria altezzosa e sofisticated, sono pronta per entrare a SoHo!

Vetrine di gran classe, grandi marche, gallerie d’arte, atelier, modernariato e design, atmosfere soft. Niente è esagerato, tutto fa tendenza. Niente che non si possa trovare anche a Roma se non quelle facce bianche, diafane e intellettualodi che non tradiscono alcun sorriso a dimostrazione che arte è sofferenza. Mah!
Cerco di porre rimedio alle mie sofferenze, quelle della fame rintanandomi nell’old fashioned Fanelli Bar di fronte a quello spazio avvenieristico che un tempo ospitava il SoHo Guggenheim Museum, fucina di arte contemporanea e sperimentale, ora sede di un loft Prada. Il disagio della civiltà!

Un veggie burger è la soluzione all’indigestione di proteine animali degli ultimi giorni e mi ricarica per superare Canal Street. E’ un brulicare di bancarelle, cineserie e inutilità da 4 soldi che danno da vivere a cinesi, afroamericani, pakistani, ma all’angolo della strada, come in un m iraggio brilla la madre di tutte le vetrine americane: si apre il sipario sul far west, camicie con frange, stivali a punta, cappelli taxani, e un grosso divano foderato di pelo e corna. Vorrei entrare a spulciare questo mondo ancora lontano, ma la giornata sta per finire e devo ancora arrivare a TriBeCa.

TriBeca è un quartiere in evoluzione, costellato di cantieri che nascondono stili architettonici differenti. Dai nuovi palazzi di vetro a costruzioni con mattoni rossi divisi in loft e mini appartamenti. Cerco la struttra del Tribece Film Festival, ma quello che mi ritovo davanti è il Tribeca Grill!!!Comunque sempre proprietà di De Niro!

Mi consolo con un Donuts e una ciccolata dolcissima e imbevibile, ma è calda e la bevo tutta, il sole si sta spegnendo.

Continuo verso Downtown, intravedo i grattacieli del Financial District, ma nel panorama si apre un vuoto.   Il World Trade Center sarebbe un grosso cantiere  qualunque, come tanti altri, se i turisti la smettessero di cercare il punto di vista più suggestivo per ritrarre una foto ricordo del più grosso disastro umano e civile del millennio.  Tra loro ci sono anche io, ma nessuno dei miei scatti riesce a restituire la profondità di questa ferita. Non riesco a percepire l’emotività degli americani che passeggiano intorno al cantiere, sono presi dalle loro vite ormai e forse non hanno il tempo per fermarsi a ricordare, o forse semplicemente preferiscono guardare avanti. I poster intorno alla retre che circonda il sito mostrano con orgoglio le immagini del progetto futuro, delle nuove torri che rinasceranno sul suolo sfregiato e si innalzeranno fiere verso il cielo a simboleggiare l’orgoglio della Nazione.