Giuseppe Cederna, Ramachandran e i frammenti del Sé

giuseppecedernaGiuseppe Cederna è un attore che ho scoperto anni fa nella pellicola di Andrea Barzini Italia Germania 4 a 3 e ho continuato a stimarlo nel film premio Oscar Mediterraneo.
Giuseppe Cederna è un attore e anche scrittore e ultimamente ricorre spesso nei miei pensieri, così, improvvisamente e senza ragione alcuna e ciò accade in momenti apparentemente incongruenti tra di loro. Il suo reading alla Fiera del Libro non poteva che essere un incontro predestinato, e mi basta sentire questo per non pormi ulteriori domande a riguardo. Scelgo, in altre parole, di accettare incondizionatamente questo dono.
Il reading dal titolo La donna che morì dal ridere, ovvero i misteri del  Sé, si annunciava come un viaggio alla scoperta del legame che unisce la scienza all’arte e come tale non poteva non suscitarmi un forte coinvolgimento, ulteriormente amplificato dalla presenza del grande attore che da troppo tempo ormai appare in piccoli frammenti della mia vita.
Una volta seduta nella Sala Azzurra del Lingotto ho scoperto che quel titolo altro non è che uno dei capolavori del medico neurologo V.S. Ramachandran che riporta alcuni bizzarri casi clinici di pazienti che riferivano assurde e immaginarie sintomatologie in merito a reali patologie. Come per esempio un atleta che ha perso il braccio ma che continua a percepirlo dolorante, o ancora il giovane Arthur che, in seguito a un fatale incidente stradale, si convince che i genitori siano stati sostituiti da replicanti, e ancora il caso del vignettista, divenuto cieco progressivamente e vittima di allucinazioni surrogate della realtà. Questi e altri celebri casi diventano il punto di partenza della dell’indagine di Ramachandran su quei meccanismi del cervello umano che determinano comportamenti irrazionali, stati d’animo incongruenti e percezioni alterate. Secondo Ramachandran questi studi possono colmare l’abisso che c’è tra la cultura scientifica e quella umanistica, tra l’immagine che abbiamo di noi stessi e quella che gli altri hanno di noi. Questo gap è determinato dai diversi ruoli giocati dagli emisferi cerebrali, per cui in quello sinistro risiede un sistema di credenze che determinano una sorta di equilibrio del Sé, ma nel momento in cui l’emisfero destro rivela delle anomalie (le patologie), può succedere che il sinistro prenda il sopravvento ignorando il problema o stravolgendo totalmente la realtà delle cose esterne. Ed ecco che si verificano tutti quei meccanismi di difesa che vanno dalla rimozione alla negazione, fino alle forme estreme di autoinganno (anosognosia). Pertanto la consapevolezza del sé e della propria identità vengono totalmente alterate e l’immagine che si ha di sé non corrisponde a quella che si mostra all’esterno.

Ora, che cosa centra tutto ciò con il rapporto tra scienza e arte?
L’arte altro non è che una ricerca dell’unità del sé frammentato nella realtà esterna. Da questo viaggio in cui si tenta di raccogliere le briciole sparse dell’Io, nascono mirabili poesie, pitture, romanzi e tutte le grandi forme d’arte possibili. L’arte è il misterioso racconto dell’Io attraverso la narrazione, i colori e le forme.

Ecco perché i grandi artisti, mediante la loro capacità profonda di essere in contatto con se stessi, hanno intuito alcuni dei più grandi meccanismi cerebrali. Di questo parla il giovane ricercatore Jonah Lehrer che ha celebrato il sodalizio tra arte e scienza nel suo illustre saggio Proust era un neuro scienziato. In esso riprende le parole di Proust che descrive il sapore e l’odore di una  madeleine e i ricordi d’infanzia che tali sensi lasciano affiorare alla memoria. Questo racconto è un’anticipazione della scoperta del legame tra connessioni cerebrali e percezioni sensoriali, nello specifico tra i sensi (gusto e olfatto) e l’ippocampo, sede della memoria a lungo termine.

Pertanto, tutto ciò che afferisce al Sé è frammentato nell’esteriorità delle esperienze, per cui la nostra verità parte dal caos esterno, dai frammenti di sensazioni, esperienze e ricordi e si ricompone al’interno della nostra coscienza dando forma al Sé.
Virginia Woolf, scrittrice dalla vita tormenta, si dedicò totalmente alla narrazione attraverso l’abbandono al flusso di coscienza, segnale questo dei tempi in cui visse, che videro sostituirsi alle certezze del positivismo, la relatività di alcune scoperte in ambito medico e scientifico (Einstein, Freud…) che rivelarono la presenza di un mondo interiore all’essere umano che in qualche modo era strettamente legato a quello esteriore. Ed è proprio osservando le infinite trasformazioni della realtà, accompagnate dal continuo fluire del tempo, che si può intervenire fissando il momento, quel momento, in quel luogo, che rivela i frammenti di un Sé in cerca di identità. E, ponendo la giusta attenzione, si può rintracciare la continuità tra i singoli momenti nello scorrere caotico degli eventi, fino a raggiungere finalmente la coerenza del Sé che definisce l’identità della persona.

L’Io è la nostra opera d’arte di cui solo noi stessi siamo responsabili. Se non ci fosse l’Io saremmo solo una massa di personaggi in cerca di autore.

Suggerisco a me stessa e a chi ha avuto la pazienza di arrivare fino alla fine di questo lungo post, le seguenti letture: L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello di Oliver Sacks, La donna che morì dal ridere di V.S.Ramachandran e Proust era un neuroscienziato di Jonah Lehrer.

Ringrazio con affetto Giuseppe Cederna, (con il quale ho sentito l’incontenibile esigenza di cercare un contatto fisico attraverso un’emozionante stretta di mano), per aver fermato in quel momento e in quel luogo un grande frammento di me e di avergli dato forma e colori attraverso le sue parole ricche di incanto, suggestione e verità.

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