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Animazione e Oscar 2010

E dopo aver recuperato Logorma, ecco qui di seguito gli altri corti d’animazione che si sono contesi la statuetta del 2010.

Franch Roast di Fabrice Joubert

A matter of Loaf and Death Wallace and Gromit di Nick Park

Granny O’Grimm’s Sleeping Beauty scritto da Kathleen O’Rourke e diretto da Nicky Phelan

The Lady and The Reaper (La dama y la muerte), diretto e scritto da Javier Recio Gracia

The New Tenants, Oscar miglior cortometraggio 2010

Era l’ultimo, ma solo per caso, della mia lista.  E invece…

L’Oscar per il miglior cortometraggio del 2010 va a The New Tenants di Joachim Back.

Io non ho ancora avuto modo di vederlo, perciò per ora accontentiamoci della recensione di Vanity Fair.

Joachim Back ha un suo sito dove potete trovare i suoi più famosi commercial.

La prima cosa bella

la prima cosa bellaLa prima cosa bella che ho avuto dalla vita è la mia mamma!

La Prima Cosa Bella è un film che ho visto con la mia mamma.

La mia mamma è molto diversa da Anna Nigiotti in Michelucci, ma anche la mia mamma ha sempre sognato. Ma l’ha scoperto solo anni fa.
Ora finalmente, la mia mamma sa di sognare, ma una vena di malinconia la accompagna sempre nei suoi viaggi onirici. Perchè ha paura per i suoi figli, perchè i suoi sogni sono quelli dei suoi figli.

Anna Nigiotti in Michelucci, invece, è una madre ingenua, perchè si fida della gente e si regala alla vita con tutto l’entusiasmo che ha, ma sa essere mamma presente e dedita ai figli che però affogano nella sua spontaneità e nella sua energia e non riescono a succhiare la linfa vitale della donna.
Bruno è vittima di un’infelicità cosmica che lo rende inadeguato a questa vita e si rifugia in suo mondo piccolo piccolo, Valeria sceglie di non vivere e si accontenta di un microcosmo di felicità apparente.

Gli anni passano e Anna continua ancora a vivere intensamente la sua semplice vita, libera dai condizionamenti della gente e dal moralismo imperante e non ha bisogno di rinchiudersi nel ruolo di mamma coraggio o nello stereotipo della donna che sacrifica se stessa per il bene dei figli.
Ed è bella, dolce e tenera anche quando la vita che ha tanto amato la sta abbandonando e ci regala l’ironia malinconica di una storia vera, passionale, senza colpi di scena,  che scorre alla sua giusta velocità scoprendo di volta in volta dei personaggi sublimi e raffinati.

Virzì celebra la vita nella sua meravigliosa e comune leggerezza, la stessa leggerezza in cui volteggiano le note della colonna sonora, quella vecchia canzone che un giorno di tanti anni fa la MIA MAMMA mi cantò stringendomi forte e guardandomi coi suoi occhi sorridenti e sognanti.

A single man

a single manSono andata a vedere questo film perché non avevo niente di meglio da fare quel pomeriggio in cui, passeggiando per il centro di Roma, dissi: “Dai, entriamo?”
Neanche nel lontano tempo della prorompente adolescenza sceglievo un film per la presenza di un attore, e invece, ora, mano nella mano del mio adorabile marito, ho optato per A single man esclusivamente per la passione smodata e setosamente carnale che provo nei confronti di quel bell’uomo di Colin Firth. (Già dai tempi di Bridget Jones, ma non ditelo in giro, ho una reputazione da cautelare.)

Ed è proprio per tale ragione che mi rallegro della Coppa Volpi che gli è stata attribuita alla 66esima Mostra del Cinema di Venezia, purtuttavia non riesco a farmene una ragione.
Come hai potuto, Colin, lasciare che ti dirigessero in tal maniera,  alterando totalmente la credibilità di un bellissimo personaggio, quale è il professor George Falconer?
Non  sottostimare il tuo pubblico: esso non ha bisogno di essere imboccato con messinscene didascaliche e ridondanti. Il tuo pubblico sa che il pane tirato fuori dal freezer è surgelato, non hai anche bisogno di sbatterlo violentemente contro il tavolo per farci udire la sua consistenza!!!
Una recitazione che simula la presenza di un bastone impiantato su per il condotto anale non rende il garbo, il manierismo (seppur ossessivo), la meticolosità e la maniacalità di un personaggio così elegante e raffinato.
La ricerca spasmodica dell’estetica ha reso i personaggi, l’ambientazione e la storia freddi e banali, a tratti noiosi.
La bellezza che ritroviamo più volte nelle parole e nei pensieri di George (quando per esempio invita i suoi studenti a coglierla nel presente),  l’avremmo voluta vedere in immagini autentiche e sincere, cariche di quella potenza narrativa in grado di restituire la naturalezza della dimensione umana.
La bellezza in questa pellicola, invece, rimane imprigionata nella sua stessa forma, nella gabbia stilistico/manieristica in cui è stata ossessivamente ricacciata: la bellezza soffre di afasia e nessuno riesce a sentire il suo urlo soffocato.
E tale soffocamento è ben descritto nel re dei tòpoi: l’uomo che volteggia negli abissi, l’acqua che soffoca e che purifica, e, dulcis in fundo, il bacio della morte.

L’estetica, questa volta, ha ucciso la bellezza!

A serious man

a seroius manIncertezza.
Suggerisce già il prologo ed è il sapore del finale di questo film troppo personale e troppo ostico per chi come me, non ha una sensibilità ebraica da poter cogliere certe raffinatezze stilistiche e culturali di cui è disseminato il film.

E mi dispiace non poco aver mancato l’occasione di poter godere di questo piccolo quadretto stilistico in cui un uomo comune, che vive esperienze di vita comune, si sente messo alla prova da Dio e cerca conforto proprio nelle istituzioni che quello stesso Dio rappresentano.

In altre parole è la semplice messa in scena del principio di indeterminazione e della ricerca di un equilibrio attraverso le strutture sociali della comunità ebraica dell’America del Mid West degli anni ’60.
Un professore di fisica viene lasciato dalla moglie per un Serious Man, che non diventa un suo rivale, ma un modello di rettitudine a cui potersi ispirare.
Ha il peso di un fratello disoccupato e depresso, dedito al gioco d’azzardo, ha due figli totalmente disinteressati a lui e una vicina seduttrice. In più, un suo allievo lo ricatta e vive l’ansia per la speranza di un’ imminente promozione.

La narrazione di questo ritratto però, dipinto con dei colori troppo angoscianti e opprimenti, arriva zoppicando e parla una lingua a me incomprensibile, troppo lenta e faticosa, suscitandomi lunghi momenti di noia e tristezza.

La religione non conforta, la famiglia nemmeno, la pellicola segue il suo cammino centripeto ruotando vorticosamente intorno a se stessa senza arrivare a nulla, perché non vuole arrivare a nulla. Allora mi chiedo, perché raccontarlo?

Ho provato a bussare alla porta, i fratelli Coen mi hanno aperto, ma non sono riuscita a varcare la soglia, come se una forza mi avesse impedito di entrare.
Pertanto, sospendo il giudizio, forse troverò un’illuminazione tra questi versi:

When the truth is found to be lies
You know the joy within you dies
Don’t you want somebody to love ?
Don’t you need somebody to love ?
Wouldn’t you love somebody to love ?
You better find someone to love…

(Somebody to love – Jefferson Airplane 1967)

State of Play

70x100.qxdState of Play è un thriller che scorre lungo il doppio e contorto binario dell’intrigo politico e della ricerca della verità. Il giornalista, veterano old school, Cal McAffrey, del Washington Globe, partendo da un servizio su una serie di omicidi apparentemente legati alla criminalità di strada, si ritrova coinvolto in un complotto politico che vede come protagonista il suo vecchio amico Stephen Collins, ambizioso deputato che supervisiona una commissione di indagine sulle spese per la difesa nazionale.

La vecchia amicizia e un velato senso di colpa legato alla moglie di Collins, infiamma la partecipazione emotiva di Cal per la ricerca della verità. Una verità contorta, macchiata di sangue che scardina l’integrità morale di quelle istituzioni che dovrebbero garantire la giustizia del bene pubblico. E il pubblico e il privato, assetati di potere, si scontrano e confluiscono in un mare di miliardi di dollari.  Ma l’acqua del mare, si sa,  è salata e il sale corrode anche l’ultimo briciolo di lealtà rimasta.
Ad affinacare Cal, la giovane Della, blogger del Washington Globe, e anima di quel giornalismo multitasking che rappresenta una differente e più immediata modalità di approccio alle fonti. Ma è la strada che osserva e riferisce. Pertanto la old school e la new school, dopo uno scontro iniziale, partendo da diverse tracce, si ritrovano sul medesimo pericoloso cammino, scoprendo che l’anima dei loro linguaggi è nutrita dalle stesse motivazioni e dallo stesso scopo, il diritto alla verità.
La macchina da presa entra con impeto nella redazione del Washington Globe mostrandone la sua forza, i suoi limiti, il suo imbarazzo nei confronti del nuovo che avanza, ma ci riporta anche quel teatro di guerra, di confronto e di unione rappresentata ad arte nella camminata finale lungo il corridoio di Cal e Della.

La pellicola è molto ben ingegnata, recitata, montata e diretta. I personaggi hanno spessore e profondità che viene restituita da piccoli gesti, abitudini e dai dialoghi strutturati alla perfezione. Rari scatti e impennate, se non nelle poche scene d’azione, restituiscono la tensione narrativa della lotta contro il tempo che apre alla sensazione di stare appieno dentro la notizia.

Piccola curiosità tecnica: il film è stato girato in parte con lenti anamorfiche per restuire al meglio l’estetica trascurata, disordinata, ma densa dell’universo di Cal. Il mondo patinato e cerimonioso del politico Stephen è invece chiaramente disegnato dalla nitidezza del digitale. Le due tecniche si fondono perfettamente regalando una coerenza di stile curato e di impatto.

Un ringraziamento va a Digital PR (Donato Markingegno e Vincos) per avermi invitato all’anteprima di questo film, la cui uscita è prevista il 30 Aprile.

Duplicity

duplicityDuplicity, ovvero doppiezza, falsità. Ed è proprio di fiducia che parla questo film. Ci si può veramente fidare dell’uomo che si ama se quest’uomo fa il tuo stesso lavoro, cioè la spia?

Ho serie difficoltà a raccontare di questo film che,  diciamo la verità, non è un thriller, ma un film d’amore poco romantico, che con una buona parte di suspence, tensione narrativa e qualche colpo di scena talvolta annunciato, si sviluppa attraverso flashback che destabilizzano e travolgono di eccessive informazioni, che si disperdono nel tentativo di dare linearità agli eventi. E così i due si amano, si tradiscono, si riamano, si alleano e complottano a volte insieme, a volte l’un contro l’altro, lungo una storia che si dipana in mezzo mondo,  tra scenari di lusso e multinazionali avide e senza scrupoli. I nostri due eroi mononeurali che, come automi, rispondono all’unico stimolo che riconoscono, il richiamo del denaro e del sesso, non coinvolgono, ti lasciano passivo e ormai distratto spettatore in attesa dell’evento che non arriva. Forse perché il massimo dell’espressività artistica il regista se l’è giocato nel teaser, la splendida immagine al ralenty dei due contendenti e personaggi chiave ottimamente interpretati da uno strepitoso Paul Giamatti e da un altrettanto eccezionale Tom Wilkinson.

Perplessa ed estranea ho visto un film tutto sommato godibile, discretamente orchestrato, ma che non lascia alcun segno, che scivola indifferente trascurando l’emotività dello spettatore.

SPOILER


Ma la rivincita dello spettatore la serve su un piatto d’argento il finale beffardo. E con un sorriso di rivalsa abbozzato sul volto ho letto i titoli di coda fino alla fine.

Tutta colpa di Giuda

tuttacolpadigiuda“Un film dentro al carcere” come ha voluto precisare il regista, Davide Ferrario.
Il carcere infatti è una delle tante immagini che parlano di privazione della libertà, di coercizione, di negazione. Quale luogo migliore, luogo che Ferrario ben conosce per gli anni di volontariato trascorsi a San Vittore, per inscenare il dogmatismo religioso?

Irena (Kasia Smutniack, dalla presenza scenica ineccepibile) è una giovane regista che porta il teatro e la recitazione a un gruppo speciale di carcerati che interpretano se stessi con estrema professionalità e presenza scenica. Dopo un’iniziale incomprensione, nasce un gruppo di lavoro forte e coeso accomunato da un’ unica nostalgia, il sapore della libertà. E danzando e cantando seguono le tracce, a loro incomprensibili, del percorso artistico di Irena.

Ma poi arriva il cappellano e si deve mettere in scena la Passione di Cristo. E Irena, poco avvezza alle temtiche religiose, accetta la sfida e si inerpica lungo un cammino tortuoso che termina davanti a un muro troppo alto anche per lei: nessuno vuole interpretare la parte di Giuda l’infame! E Irena si immerge nella lettura critica dei Vangeli e trova la soluzione, raffigurando l’umanità di Cristo al di là del dogmatismo religioso:  la redenzione deve necessariamente passare attraverso la sofferenza?
Il sacrificio ha diverse facce, di cui la sofferenza è solo una delle tante. Ed ecco che la riconciliazione con Dio prende le sembianze di una lirica gioiosa che rende sacro il canto della libertà.

La semplicità strabordante del linguaggio restituisce tutta l’intensità della storia, facendone uno dei punti di forza insieme alle immagini genuine che danzano sulla musica e dentro la musica e alla scrittura perfetta delle conversazioni del direttore del carcere (un bravissimo Fabio Troiano), pregne di saggezza e intrise di messaggi chiari e onesti che centrano il cuore del problema della realtà penitenziaria, della privazione della libertà e della sottomissione alle convenzioni.
Tutta colpa di Giuda è un film coraggioso e vincente che non vuole denunciare la condizione della vita carceraria, ma vuole semplicemente raccontare, con leggerenza e senza retorica, la pesantezza della reclusione mentale che immobilizza la riflessione intima di credenti e non, sui misteri della spiritualità e dell’assolutismo religioso.

Louise-Michel

louise-michelLouise Michel (1830-1905) è stata un’anarchica francese che, per rivendicare il diritto all’educazione per le donne, fu deportatata dalla Comune di Parigi in Oceania, dove continuò a dare voce concreta ai suoi ideali di uguaglianza tra i sessi.
Sua frase celebre è  Ovunque l’uomo soffre nella società maledetta, ma nessun dolore è paragonabile a quello della donna.
Ma in questo film il dolore è universale e attanaglia Louise, che donna non è, e Michel che un uomo non è. Nasce così la coppia strampalata e bizzarra di Louise e Michel e il loro patetico viaggio vendicativo in cui non c’è ormai più nulla da perdere e l’estremo e l’assurdo diventano il normale e il giusto.
La trama, la spietata vendetta contro “il padrone”, così chiamato non a caso, è originale, attuale e portata all’estremo. Riusciranno i nostri eroi a vendicare il torto subito dal capitalismo imperante? Sin dalla prima scena veniamo introdotti in questo mondo alienato, dove la lotta di classe è organizzata attorno al tavolo di un bar: 10 operaie che hanno perso il lavoro a causa della vendita improvvisa della loro fabbrica, decidono di mettere insieme la liquidazione per assoldare uno spietato killer che ammazzi il padrone. Ma l’impresa è molto più complessa di quanto sembri e si snoda tra vicende in cui la fame, abilmente rappresentata in due scene, quella del piccione e quella del coniglio, non vuole essere oggetto ne’ di un’urlata denuncia sociale ne’ di compatimento, ma rappresenta il punto estremo di non ritorno per cui l’omicidio diventa la più naturale e umana delle soluzioni possibili.

Lunghi silenzi interrotti da dialoghi bizzarri, perfettamente consoni all’atmosfera strampalata, inquadrature fisse, tinteggiate da colori insaturi, sono i componenti di un film in cui alcune situazioni surreali,  animate da geniale comicità, sono però troppo slegate dal racconto e, piuttosto che condire d’arte la pellicola, distraggono e allontanano dalla condivisione empatica dell’obiettivo dei nostri eroi. E si arriva anche a provare un certo disgusto quando ci si fa sberleffo della vita nel coinvolgere chi, di speranza davvero non ne può più avere, i malati terminali. Uno scivolamento troppo profondo nel cattivo gusto che provoca una ferita insanabile nell’empatia.
Alla fine, nonostante tutto, giustizia è fatta e una nuova nascita ha il sapore di una speranza rinnovata.

Questa ricca e astrusa metafora è troppo scombinata e  non riesce a restituire la denuncia che sottende il film.
Ottimi ingredienti, mal mescolati, in una minestra acida, corrosiva e sarcastica.