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A serious man

a seroius manIncertezza.
Suggerisce già il prologo ed è il sapore del finale di questo film troppo personale e troppo ostico per chi come me, non ha una sensibilità ebraica da poter cogliere certe raffinatezze stilistiche e culturali di cui è disseminato il film.

E mi dispiace non poco aver mancato l’occasione di poter godere di questo piccolo quadretto stilistico in cui un uomo comune, che vive esperienze di vita comune, si sente messo alla prova da Dio e cerca conforto proprio nelle istituzioni che quello stesso Dio rappresentano.

In altre parole è la semplice messa in scena del principio di indeterminazione e della ricerca di un equilibrio attraverso le strutture sociali della comunità ebraica dell’America del Mid West degli anni ’60.
Un professore di fisica viene lasciato dalla moglie per un Serious Man, che non diventa un suo rivale, ma un modello di rettitudine a cui potersi ispirare.
Ha il peso di un fratello disoccupato e depresso, dedito al gioco d’azzardo, ha due figli totalmente disinteressati a lui e una vicina seduttrice. In più, un suo allievo lo ricatta e vive l’ansia per la speranza di un’ imminente promozione.

La narrazione di questo ritratto però, dipinto con dei colori troppo angoscianti e opprimenti, arriva zoppicando e parla una lingua a me incomprensibile, troppo lenta e faticosa, suscitandomi lunghi momenti di noia e tristezza.

La religione non conforta, la famiglia nemmeno, la pellicola segue il suo cammino centripeto ruotando vorticosamente intorno a se stessa senza arrivare a nulla, perché non vuole arrivare a nulla. Allora mi chiedo, perché raccontarlo?

Ho provato a bussare alla porta, i fratelli Coen mi hanno aperto, ma non sono riuscita a varcare la soglia, come se una forza mi avesse impedito di entrare.
Pertanto, sospendo il giudizio, forse troverò un’illuminazione tra questi versi:

When the truth is found to be lies
You know the joy within you dies
Don’t you want somebody to love ?
Don’t you need somebody to love ?
Wouldn’t you love somebody to love ?
You better find someone to love…

(Somebody to love – Jefferson Airplane 1967)

State of Play

70x100.qxdState of Play è un thriller che scorre lungo il doppio e contorto binario dell’intrigo politico e della ricerca della verità. Il giornalista, veterano old school, Cal McAffrey, del Washington Globe, partendo da un servizio su una serie di omicidi apparentemente legati alla criminalità di strada, si ritrova coinvolto in un complotto politico che vede come protagonista il suo vecchio amico Stephen Collins, ambizioso deputato che supervisiona una commissione di indagine sulle spese per la difesa nazionale.

La vecchia amicizia e un velato senso di colpa legato alla moglie di Collins, infiamma la partecipazione emotiva di Cal per la ricerca della verità. Una verità contorta, macchiata di sangue che scardina l’integrità morale di quelle istituzioni che dovrebbero garantire la giustizia del bene pubblico. E il pubblico e il privato, assetati di potere, si scontrano e confluiscono in un mare di miliardi di dollari.  Ma l’acqua del mare, si sa,  è salata e il sale corrode anche l’ultimo briciolo di lealtà rimasta.
Ad affinacare Cal, la giovane Della, blogger del Washington Globe, e anima di quel giornalismo multitasking che rappresenta una differente e più immediata modalità di approccio alle fonti. Ma è la strada che osserva e riferisce. Pertanto la old school e la new school, dopo uno scontro iniziale, partendo da diverse tracce, si ritrovano sul medesimo pericoloso cammino, scoprendo che l’anima dei loro linguaggi è nutrita dalle stesse motivazioni e dallo stesso scopo, il diritto alla verità.
La macchina da presa entra con impeto nella redazione del Washington Globe mostrandone la sua forza, i suoi limiti, il suo imbarazzo nei confronti del nuovo che avanza, ma ci riporta anche quel teatro di guerra, di confronto e di unione rappresentata ad arte nella camminata finale lungo il corridoio di Cal e Della.

La pellicola è molto ben ingegnata, recitata, montata e diretta. I personaggi hanno spessore e profondità che viene restituita da piccoli gesti, abitudini e dai dialoghi strutturati alla perfezione. Rari scatti e impennate, se non nelle poche scene d’azione, restituiscono la tensione narrativa della lotta contro il tempo che apre alla sensazione di stare appieno dentro la notizia.

Piccola curiosità tecnica: il film è stato girato in parte con lenti anamorfiche per restuire al meglio l’estetica trascurata, disordinata, ma densa dell’universo di Cal. Il mondo patinato e cerimonioso del politico Stephen è invece chiaramente disegnato dalla nitidezza del digitale. Le due tecniche si fondono perfettamente regalando una coerenza di stile curato e di impatto.

Un ringraziamento va a Digital PR (Donato Markingegno e Vincos) per avermi invitato all’anteprima di questo film, la cui uscita è prevista il 30 Aprile.

Duplicity

duplicityDuplicity, ovvero doppiezza, falsità. Ed è proprio di fiducia che parla questo film. Ci si può veramente fidare dell’uomo che si ama se quest’uomo fa il tuo stesso lavoro, cioè la spia?

Ho serie difficoltà a raccontare di questo film che,  diciamo la verità, non è un thriller, ma un film d’amore poco romantico, che con una buona parte di suspence, tensione narrativa e qualche colpo di scena talvolta annunciato, si sviluppa attraverso flashback che destabilizzano e travolgono di eccessive informazioni, che si disperdono nel tentativo di dare linearità agli eventi. E così i due si amano, si tradiscono, si riamano, si alleano e complottano a volte insieme, a volte l’un contro l’altro, lungo una storia che si dipana in mezzo mondo,  tra scenari di lusso e multinazionali avide e senza scrupoli. I nostri due eroi mononeurali che, come automi, rispondono all’unico stimolo che riconoscono, il richiamo del denaro e del sesso, non coinvolgono, ti lasciano passivo e ormai distratto spettatore in attesa dell’evento che non arriva. Forse perché il massimo dell’espressività artistica il regista se l’è giocato nel teaser, la splendida immagine al ralenty dei due contendenti e personaggi chiave ottimamente interpretati da uno strepitoso Paul Giamatti e da un altrettanto eccezionale Tom Wilkinson.

Perplessa ed estranea ho visto un film tutto sommato godibile, discretamente orchestrato, ma che non lascia alcun segno, che scivola indifferente trascurando l’emotività dello spettatore.

SPOILER


Ma la rivincita dello spettatore la serve su un piatto d’argento il finale beffardo. E con un sorriso di rivalsa abbozzato sul volto ho letto i titoli di coda fino alla fine.

Tutta colpa di Giuda

tuttacolpadigiuda“Un film dentro al carcere” come ha voluto precisare il regista, Davide Ferrario.
Il carcere infatti è una delle tante immagini che parlano di privazione della libertà, di coercizione, di negazione. Quale luogo migliore, luogo che Ferrario ben conosce per gli anni di volontariato trascorsi a San Vittore, per inscenare il dogmatismo religioso?

Irena (Kasia Smutniack, dalla presenza scenica ineccepibile) è una giovane regista che porta il teatro e la recitazione a un gruppo speciale di carcerati che interpretano se stessi con estrema professionalità e presenza scenica. Dopo un’iniziale incomprensione, nasce un gruppo di lavoro forte e coeso accomunato da un’ unica nostalgia, il sapore della libertà. E danzando e cantando seguono le tracce, a loro incomprensibili, del percorso artistico di Irena.

Ma poi arriva il cappellano e si deve mettere in scena la Passione di Cristo. E Irena, poco avvezza alle temtiche religiose, accetta la sfida e si inerpica lungo un cammino tortuoso che termina davanti a un muro troppo alto anche per lei: nessuno vuole interpretare la parte di Giuda l’infame! E Irena si immerge nella lettura critica dei Vangeli e trova la soluzione, raffigurando l’umanità di Cristo al di là del dogmatismo religioso:  la redenzione deve necessariamente passare attraverso la sofferenza?
Il sacrificio ha diverse facce, di cui la sofferenza è solo una delle tante. Ed ecco che la riconciliazione con Dio prende le sembianze di una lirica gioiosa che rende sacro il canto della libertà.

La semplicità strabordante del linguaggio restituisce tutta l’intensità della storia, facendone uno dei punti di forza insieme alle immagini genuine che danzano sulla musica e dentro la musica e alla scrittura perfetta delle conversazioni del direttore del carcere (un bravissimo Fabio Troiano), pregne di saggezza e intrise di messaggi chiari e onesti che centrano il cuore del problema della realtà penitenziaria, della privazione della libertà e della sottomissione alle convenzioni.
Tutta colpa di Giuda è un film coraggioso e vincente che non vuole denunciare la condizione della vita carceraria, ma vuole semplicemente raccontare, con leggerenza e senza retorica, la pesantezza della reclusione mentale che immobilizza la riflessione intima di credenti e non, sui misteri della spiritualità e dell’assolutismo religioso.

Louise-Michel

louise-michelLouise Michel (1830-1905) è stata un’anarchica francese che, per rivendicare il diritto all’educazione per le donne, fu deportatata dalla Comune di Parigi in Oceania, dove continuò a dare voce concreta ai suoi ideali di uguaglianza tra i sessi.
Sua frase celebre è  Ovunque l’uomo soffre nella società maledetta, ma nessun dolore è paragonabile a quello della donna.
Ma in questo film il dolore è universale e attanaglia Louise, che donna non è, e Michel che un uomo non è. Nasce così la coppia strampalata e bizzarra di Louise e Michel e il loro patetico viaggio vendicativo in cui non c’è ormai più nulla da perdere e l’estremo e l’assurdo diventano il normale e il giusto.
La trama, la spietata vendetta contro “il padrone”, così chiamato non a caso, è originale, attuale e portata all’estremo. Riusciranno i nostri eroi a vendicare il torto subito dal capitalismo imperante? Sin dalla prima scena veniamo introdotti in questo mondo alienato, dove la lotta di classe è organizzata attorno al tavolo di un bar: 10 operaie che hanno perso il lavoro a causa della vendita improvvisa della loro fabbrica, decidono di mettere insieme la liquidazione per assoldare uno spietato killer che ammazzi il padrone. Ma l’impresa è molto più complessa di quanto sembri e si snoda tra vicende in cui la fame, abilmente rappresentata in due scene, quella del piccione e quella del coniglio, non vuole essere oggetto ne’ di un’urlata denuncia sociale ne’ di compatimento, ma rappresenta il punto estremo di non ritorno per cui l’omicidio diventa la più naturale e umana delle soluzioni possibili.

Lunghi silenzi interrotti da dialoghi bizzarri, perfettamente consoni all’atmosfera strampalata, inquadrature fisse, tinteggiate da colori insaturi, sono i componenti di un film in cui alcune situazioni surreali,  animate da geniale comicità, sono però troppo slegate dal racconto e, piuttosto che condire d’arte la pellicola, distraggono e allontanano dalla condivisione empatica dell’obiettivo dei nostri eroi. E si arriva anche a provare un certo disgusto quando ci si fa sberleffo della vita nel coinvolgere chi, di speranza davvero non ne può più avere, i malati terminali. Uno scivolamento troppo profondo nel cattivo gusto che provoca una ferita insanabile nell’empatia.
Alla fine, nonostante tutto, giustizia è fatta e una nuova nascita ha il sapore di una speranza rinnovata.

Questa ricca e astrusa metafora è troppo scombinata e  non riesce a restituire la denuncia che sottende il film.
Ottimi ingredienti, mal mescolati, in una minestra acida, corrosiva e sarcastica.

Gran Torino

gran_torinoE sul finale del film, lo scombussolamento emotivo che vibrava da un’ora e mezzo nel mio petto è esploso in un irruente effluvio di calde e dense lacrime. La poltrona del cinema continuava ad avvolgermi e mi rassicuravano, coccolandomi, le note di Gran Torino cantata dalla voce roca di Clint Eastwood.

Walt, pardon, Mr. Kowalsky, è un veterano della guerra di Corea, è lo yankee che vive di tutto ciò che di americano gli è rimasto, il suo giardino, il vecchio cane Daisy, birra, sigarette e l’americanissima Ford Gran Torino. Tutt’intorno c’è un’ America che cambia nei vestiti succinti della nipote e nel vecchio quartiere multietnico che segnerà il cammino della sua Redenzione.
Il film ha un cuore grande che palpita e che non ha bisogno di alcun orpello stilistico per restituire tutta la sua potenza emotiva. Una drammaturgia perfetta disegnata da immagini secche e pulite che rivelano il mondo interiore di un uomo attraverso un ringhio minaccioso e una mano che mima una pistola.
E se le parole sono importanti, quelle pronunciate da Walt sono piene di rabbia e di invocazioni razziste, ma nascondono il dolore e la colpa di un passato troppo presente che ritrova negli occhi a mandorla dei suoi vicini, i quali, inconsapevolmente, gli indicheranno essi stessi il cammino verso la liberazione.
Ed è un percorso oltre ogni moralistica interpretazione, è l’Uomo che raggiunge l’apice della sua Salvazione attraverso azioni concrete che ne mostrano il limite, ma allo stesso tempo la massima virtù dell’Uomo stesso, il Sacrificio.
Mai tanta Spiritualità è stata così Umana e terrena!

Religiolus

religulousUn documentario, un viaggio dissacrante attraverso i luoghi delle religioni mirato al dialogo e al confronto.
Bill Maher non si fa portatore di un ateismo dogmatico, ma è proprio contro il dogma e il fanatismo che si schiera, a favore dell’ umano e ragionevole dubbio. Partendo da un lecito agnosticismo, il comico/giornalista Maher ricerca il contraddittorio, senza per questo tralasciare battute e ironia sagace e raffinata, in fondo rimane sempre uno show man che ha costruito il proprio successo sul Politically Incorrect.
Assistiamo all’incontro con politici che celano dietro al vessillo della religione la giustificazione alle proprie strategie di potere e grazie all’abilità comica di Maher preferiamo riderci su, perchè basterebbe ripensare alle polmiche sulla Vita delle scorse settimane per cadere nello sconforto più nero.
Riesce a indurci una simpatica compassione persino per i personaggi bislacchi che si credono, o meglio, vogliono far credere di essere nuovi Messia e si fanno interpreti delle leggi di Dio ad personam.
Ma fatta la legge trovato l’inganno! E così abili ebrei ortodossi, con orgoglio, mostrano i ritrovati tecnologici più astrusi per raggirare i divieti che impone lo Shabbat.
Ma il trionfo della mistificazione del profondo senso della spiritualità è teatralmente ricostruito nella Holy Land Experience, una sorta di parco di divertimenti in cui viene ricostruita la Terra Santa, con tanto di passione, crocifissione e resurrezione di Cristo in musical!!! E folle di turisti, psicologicamente soggiogati dall’atmosfera ricreata da abili attori e ballerini, in una unione di comuni sensi, ridono, piangono e soffrono col Cristo Superstar!

Bill Maher non è mai aggresivo, nè oltraggioso, e lo si evince quando, dopo una conversazione con dei fedeli, li saluta dicendo grazie per essere stati simili a Cristo e non ai cristiani, rivelando una garbata consapevolezza della spiritualità.

Bisogna distinguere l’Uomo da Dio per accedere alla spiritualità pura, a quella congiunzione con la divinità che non nega nè la ragione nè il pensiero critico, ma che si oppone con ardore ad ogni forma di fanatismo e perversione religiosa.
Nella battaglia tra religione e spiritualità, scelgo quest’ultima, scelgo l’amore divino che mi svincola dai condizionamenti e mi apre il cammino verso la libertà.

Milk

milkRaccontando le vicende di Harvey Milk, Gus Van Sant costruisce un film intenso che scorre emozionando, senza cadere mai nella retorica, alternando vita privata e pubblica del primo omosessuale dichiarato che riuscì a ottenere un incarico pubblico, quello di supervisor nella città San Francisco nel 1977.

Il film si apre con le immagini irruente di repertorio che documetano la forza dei movimenti sociali per i diritti civili che imperversavano negli anni ’70  per poi staccare sull’inquadratura fissa  che ritrae Harvey Milk  seduto in cucina mentre affida a un registratore i momenti della sua battaglia politica e di vita privata. Il coraggio, l’entusiasmo segnati dalla costante paura del tragico destino che lo accoglierà, accompagnano l’eroe lungo il suo cammino della speranza.
Sono Harvey Milk e sono qui per reclutarvi  tutti . Da questo slogan parte la battaglia fiera e dignitosa per la rivendicazione dei diritti per gli omosessuali e  apre la strada ai movimenti trasversali in nome dell’universalità dei diritti civili.

Per Sean Penn è una prova d’attore che commuove fino alla riverenza, nella cornice di una regia semplice e di classe che alterna l’occhio documentaristico nei momenti di vita pubblica, allo sguardo più intimista e delicato negli attimi in cui disegna il Milk privato, simpatico e affettuoso, umile e proteso all’ascolto. Fondendo in maniera magistrale la commozione artistica e il racconto documentaristico ci restituisce un’opera dal forte impatto narrativo.

La forza politica  si accompagna ancora una volta  alla morte, come se solo il martirio fosse condizione ineluttabile a garanzia della giustizia. Milk ripercorra il paradigma del destino dell’eroe. Troppi uomini e troppe donne abbiamo visto cadere in nome della libertà. E mentre la Speranza tanto evocata da Milk aleggia timida negli animi di tutti noi alla luce degli ultimi avvicendamenti ai vertici della politica mondiale, di fronte a noi il sentiero è irto di asperità.  Sono passati più di 30 anni dalla battaglia contro la Proposition 6 e pochi mesi fa  è stata approvata la Proposition 8 che vieta i matimoni tra gay in California.
E mi indigno all’idea che questo film negli Stati Uniti sia stato vietato ai minori di 17 anni.

Funny Games

funny-games.jpgNon vorrei spendere molte parole per Funny Games perchè è un film che non ha, a mio avviso, alcuna validità artistica.
I due damerini di bianco vestiti non suscitano alcun fascino e alcuna inquietudine, sono scontati, noiosi, al limite del ridicolo e talvolta grotteschi.
Il tentativo di critica della società borghese fallisce sin dal principio, dal momento in cui, di questa società, non ci racconta nulla se non alcuni dettagli di forma (la bella casa di villeggiatura, la barca…) troppo scontati. La violenza fine a se stessa è mal raccontata e, alla domanda perchè ci fate questo, non mi accontenta la risposta perchè no?. O meglio lo farebbe, se le immagini o i dialoghi mi dessero l’occasione di cogliere lentamente la costruzione di un complesso e cinico funny game.
L’attribuzione di senso alle azioni dei personaggi è il punto di forza della riuscita di una bella storia, ecco perchè non tutte le storie vale la pena che siano raccontate. Il discriminante artistico sta nell’espressionismo delle immagini e delle parole. Qui non accade. E si scade nel grottesco sterile. Una regia minimalista (che può anche avere il suo fascino) per una storia mal raccontata che non comunica nè violenza nè sadismo (e non perchè non me li faccia vedere, questo al contrario, è un merito del film) ma perchè totalmente privo di tensione emotiva e narrativa nella costruzione della suspense e nella quasi totale assenza di colpi di scena. Non mi riferisco a una chiassosa ed eclatante messa in scena, ma ad un raffinato e prepotente racconto di tortura e sopraffazione psicologica e fisica.
Il gioco filosofico sul rapporto tra finzione e realtà che si rivela nel momento in cui uno dei due damerini si rivolge direttamente al pubblico o quando riporta il tempo indietro col telecomando, si esaurisce in un banale dialogo tra i due in una delle scene finali.

Funny Games è un gioco a cui ho voluto partecipare, ma non mi sono divertita.

Il Divo

il-divo.jpgMi ci è voluto del tempo, dei giorni. Solo adesso posso affermare con certezza che l’ultimo film di Paolo Sorrentino, Il Divo mi è piaciuto. Ma anche se a tale conclusione non fossi giunta, sono sempre stata dell’opinione che siamo di fronte a una pellicola di elevata qualità.
Se non riuscite a parlar bene di una persona, non parlatene…. È l’iscrizione che apre il sipario alla messa in scena, quasi a metterci in guardia dall’esprimere alcun giudizio di valore in merito all’uomo che stiamo per conoscere attrverso la rappresentazione curata e raffinata che scorre lentamente davanti ai nostri occhi.
Sin dalle prime immagini si apre una dimensione altra, tenebrosa, è la scena in cui si muove la figura mefistofelica di Andreotti, ritratto nell’intimo del suo dolore, l’emicrania cronica che lo corrode da sempre (e in questo va tutta la mia solidarietà). È la dimensione privata dell’uomo, del marito che stringe la mano alla moglie seduto davanti alla tv ad ascoltare le note di Renato Zero e dei Migliori anni della nostra vita.
Ma poi entra con impeto la storia: una carrellata d’impatto veloce degli omicidi che scalfiscono la storia d’Italia, immagini oblique e taglienti e musica sparata con la stessa violenza che suscitano i ricordi più inquietanti della nostra epoca.
Il momento in cui il racconto documentario si fonde nell’immaginario passa inosservato. Tutto è rappresentato con uno stile visionario, amplificato magistralmente dall’ottima interpretazione dei personaggi al limite del grottesco e caricaturale. La farsa, il burlesque, innovazioni visive dettate da una regia moderna, dinamica che non si parla addosso ma che sa essere misurata e appropriata in ogni momento e illumina con tagli di luce espressionistici più che mai, che raggiungono il loro apice nel bianco esasperante nella scena del bacio con Totò Riina.
Dalla velocità delle immagini che danzano a ritmo di un rock graffiante, si passa senza stonature, alla lentezza lugubre di quella figura “sgorbieggiante” che si aggira scivolando tra i corridoi dei palazzi della politica, senza disdegnare i solotti festosi.
Grandiosi i primi 40 minuti, lento e a tratti noisoso, ahimè, nella seconda parte.
Memorabile l’entrata in scena dei Reservoir Dogs della “Corrente Andreottina”: Cirino Pomicino, Evangelisti, Ciarrapico, Sbardella, Lima e il Cardinale Angelini.
Ed è solo una parte della storia di Andreotti, dall’aprile del 1992 alla vigilia del processo di Palermo, ma pendono come macigni sull’orlo di un burrone, la strage di Capaci, il delitto Moro, la bancarotta del Banco Ambrosiano, l’omicidio Pecorelli, le confessioni dei pentiti.
Il Divo non viene mai messo direttamente alla sbarra, c’è la narrazione degli eventi che hanno caratterizzato l’Italia degli scandali, della corruzione, dei delitti sociali, in nome della ragion di stato. È proprio in nome di quella massima machiavelliana per cui il fine giustifica i mezzi, il Divo Giulio si assume la responsabilità della “pratica del Male che è servita a preservare, difendere, promuovere il Bene”. In fondo il Male è connaturato nell’uomo, siamo tutti peccatori, quale meraviglia di fronte a così fatto sarcasmo, cinismo, spregiudicatezza, “autogiustificazionismo”, quale stupore di fronte alla pratica di quel Potere che logora chi non ce l’ha?

Il Divo Giulio, la Sfinge, il Gobbo, La Volpe, il Papa nero, Belzebù. Più volte oggetto di satira, più o meno raffinata, dalla quale risulta comunque difficile differenziarsi, in quanto facente parte attiva da più di mezzo secolo dell’immaginario collettivo del nostro Paese, ne scaturisce, del politico, la parte che paradiossalmente definirei più umana nella sua dimensione enigmatica, mefistofelica e a tratti arrendeista a un destino ineluttabile, come fosse investito di una responsabilità divina nel portare avanti il programma per il Bene della collettività. Una personalità doppia, il Diavolo e l’Acqua Santa che trovano nel Divo il canale unico di un dialogo vivace e attivo per cui l’uno giustifica l’altra in nome del Bene Supremo, che è il Bene dell’uno e dell’altra. Ecco perchè, a differenza dell’odiato/amato mito De Gasperi che trascorreva le ore in preghiera diretta con Dio, Giulio ama conversare con i preti, perchè i preti votano, Dio no.
L’interpretazione di Servillo e il tentativo di somiglianza realiastica risulta riuscito nell’uso sapiente della voce e dei movimenti lenti e impalpabili, prima su tutte la camminata scivolosa. Ma risulta artificiosa la maschera che inficia la credibilità del personaggio.
Si può essere maschera senza indossare una maschera.
Toni Servillo non assomiglia per niente ad Andreotti, ma che importa? Non è sufficiente indossare una gobba e incurvare le orecchie per essere Andreotti, a uno come Servillo sarebbe bastato camminare, muoversi e parlare come Andreotti.
La prodigiosa messa in scena de Il Divo è la dimostrazione di come si possa ironizzare sulla politica, sfociando nel grottesco mantendendo la classe e la finezza intellettuale che Sorrentino ha dimostrato di saper fare.
Il Divo è un film che in fondo non aggiunge nulla a ciò che già si sa e non scoperchia alcuna verità. Si limita a mostrare quadri di fatti ed eventi della nostra storia che in qualche modo hanno visto Andreotti protagonista e dai quali è sempre riuscito a uscirne pulito davanti alla Giustizia e davanti agli occhi degli italiani che, come d’impeto rumoreggiano, replicano, protestano e si lamentano, così altrettanto velocemente dimenticano.